- Racconto -

Coming out

La mia scuola è cattolica. Quando sono stata assunta lo sapevo e, anche se mi reputo solo credente, ho accettato di insegnare filosofia in quel contesto: per me la cosa più importante è imparare, da qualsiasi ambiente.

Poi, col tempo, ho iniziato a notare gli sguardi e le obiezioni che ricevevo durante i dibattiti in classe quando esponevo il mio punto di vista aperto sulle cose; i ragazzi sono molto più abili degli adulti a capire chi hanno davanti. E avevano capito quasi subito che la “prof di filo” era proprio una di quelle che non puoi definire allineata allo zoccolo duro del cattolicesimo d’antan. Forse per questo con me si sentivano più liberi di parlare anche fuori dalle etichette, sia in pubblico, in classe, che in privato.
Ho preso questa terza che per me era il primo anno d’insegnamento e l’ho portata in quinta. È sempre stata una classe ricca di contraddizioni, troppo, troppo vivace, con elementi tirati per i capelli da contesti di droga, ma provenienti da famiglie cosiddette perbene.
Alessandra era una brava ragazza, ma già dalla terza le leggevo negli occhi un che di recalcitrante. Questa scintilla riverberava inevitabilmente sui suoi comportamenti: era sempre in contrasto, contestatrice indefessa, ma cupa nonostante il suo spirito ciarliero e da compagnona. Aveva sempre evitato gli impegni scolastici, era una di quelle che da professoressa consumata ti fanno dire stancamente ai genitori «è intelligente ma non si applica».
E poi in quinta, la metamorfosi. Compagnona come sempre, quella era la sua indole, ma in generale più silenziosa, sportiva instancabile come gli altri anni ma, incredibilmente, quell’anno si era presa a cuore l’impegno scolastico. Addirittura, un giorno in cui avevo consegnato le verifiche corrette, era venuta a chiedermi dove avesse sbagliato, perché voleva migliorare i suoi voti in Filosofia. Avevo pensato che fosse la strizza per l’esame di maturità imminente, e invece era accaduto qualcosa di più profondo. Ma con gli adolescenti, forse con le persone in generale, devi saper cogliere il momento giusto per scoprire certe cose così profonde: un po’ devi agire attivamente, un po’ devi aspettare che vengano da te.
Un giorno venne da me, infatti. Era appena suonata la campanella e stavo mettendo via le mie cose per cambiare aula. Lei mi si era avvicinata come sempre in maniera gioviale e scherzosa, ma i suoi occhi tradivano qualcosa di più serio. Mi disse che forse voleva parlarmi, ma non ne era sicura, e mi chiese se per me andava bene. Era appena accaduto un grosso screzio tra compagni di classe, uno di quei litigi melodrammatici basati su pettegolezzi che si trascinano per mesi per poi risolversi in un nulla, tutto come prima. E quindi pensai che volesse parlarmi di qualcosa di inerente a quell’avvenimento. Ma mi colpì che non mi chiedeva seccamente di parlare, come se si fidasse del fatto che, anche se lei stessa non era sicura di voler vuotare il sacco, sapeva che sarebbe stata accolta ugualmente. E infatti, un po’ ridendo e un po’ seria, le dissi che quando si fosse decisa io sarei stata felice di ascoltarla.
Una settimana dopo tornò da me per dirmi che era tutto a posto e che non c’era più bisogno di un confronto tra noi. Non le credetti nemmeno per un istante, ovviamente, ma annuii e le dissi che andava bene così. Ridevo maliziosamente, per farle capire che non me la dava a bere, ma che non ero ansiosa di strapparle i suoi segreti. Infatti trascorse ancora qualche giorno e all’improvviso, fugacemente, nel marasma di studenti all’uscita, mi incrociò e mi chiese se avevo cinque minuti in quel momento, fuori da scuola, possibilmente lontano da tutti. Un po’ esitante per la modalità, incontrare gli studenti fuori da scuola non è una prassi ben vista, accettai comunque.
Eravamo dietro l’angolo del palazzo di fronte a scuola, alcuni ragazzi passavano ma eravamo più tranquille. Lì la sua leggerezza era evaporata. Le tremavano le mani e la voce. Mi disse che non sarebbe riuscita a parlare, a raccontare dall’inizio, e che preferiva che io leggessi prima la nota che aveva scritto sul cellulare che mi stava porgendo. Lessi.
C’era scritto che le costava molto scoprirsi così, ma che era arrivato un momento per lei in cui non poteva più farne a meno, che tenersi tutto dentro faceva più male che parlare.
Dall’estate precedente era iniziato il suo amore. Lei faceva parte di una squadra di calcio, giocava al livello agonistico e di recente si era avvicinata a una sua compagna di squadra che la ricopriva di attenzioni. La loro amicizia era diventata subito molto intima e questa ragazza aveva iniziato a manifestare un interesse maggiore e di altro tipo. Scriveva, in quella nota, che inizialmente si era sentita imbarazzata e molto confusa, che aveva rifiutato quelle attenzioni, ma che poi, leggendo dentro di sé, si era resa conto che anche per lei quell’amicizia era un sentimento più forte, che si era innamorata. Scriveva ancora che aveva iniziato a vivere l’esperienza più bella della sua vita e che soffriva del fatto che sentiva di non poterla raccontare a nessuno al di fuori della squadra. Né agli amici, né ai compagni di classe, né tantomeno ai genitori.
Alzai gli occhi dal cellulare, mi ero commossa. La prima cosa che le dissi, scherzando, fu che la invidiavo e che era fortunata, stava vivendo un amore bellissimo e che, come tutti i primi amori, era prorompente e totalizzante. Poi tornai serissima e le dissi: «Grazie Ale, sono onorata che tu abbia scelto me per parlare di questo». Credo che queste parole le sciolsero la tensione, perché rise e smise di tremare. «Sapevo di potermi fidare di lei», mi disse, e mi chiese:«e adesso?». Già, e adesso? Mi aveva colta alla sprovvista e così non avevo potuto preparare un discorso edificante. Per fortuna.
Le dissi quello che mi venne più spontaneo. Cioè che potevo solo lontanamente immaginare, da eterosessuale, quale sofferenza provocasse il dover vivere la cosa più bella del mondo riparandola dalla luce del sole.
Le dissi che si doveva concentrare sulla bellezza della sua esperienza e che doveva essere coraggiosa. Mentre glielo dicevo mi sentivo ipocrita, perché io a diciassette anni non avevo dovuto essere coraggiosa quando ero innamorata, ma non credevo in quel momento di poterle dire altro.
Le dissi che la società in cui viviamo non è pronta a farle vivere serenamente il suo sentimento e che le strade che aveva davanti erano due: o infischiarsene di tutti e tutto e sbandierare i suoi sentimenti, tenendo presente però la pioggia di critiche e giudizi a cui andava incontro; oppure procedere più cautamente nel racconto, selezionare man mano le persone, preparare il terreno, con delicatezza arrivare a raccontarlo anche alla famiglia.
Le dissi di prepararsi al fatto che non tutti avrebbero capito, che ci sarebbe stata una dose di sofferenza e giudizi da sopportare e che alcuni invece l’avrebbero stupita in positivo, ma che valeva comunque la pena vivere alla luce del sole e non nascondersi.
Chi ti giudicherà, le dissi, dovrà prima di tutto fare i conti con la profonda e segreta invidia che prova verso te e Greta, che siete così innamorate.
Non so descrivere come mi guardò. Però so che la conseguenza di quello sguardo è che oggi, ormai maturata, ora che non siamo più studente-docente e che comunque ci separano undici anni, oggi ho conosciuto il suo amore bellissimo e siamo andate a berci una birra insieme.