- Racconto -

E lì rimasi

Facendo molti passi a ritroso tra i ricordi, le immagini e le storie, mi ritrovo tra i banchi di scuola della terza elementare. Credo fosse l’anno 1998.

In prima e in seconda elementare eravamo un’unica classe di circa 30 bambini. Ovviamente fu un disastro.
«Troppi alunni. Dividiamoli!» dissero le maestre, e ci separarono in due classi. Io finii in 3°H.
I banchi vennero disposti a ferro di cavallo. Adesso che eravamo pochi potevano tenerci tutti sott’occhio. Due gli schieramenti: a destra le femminucce, a sinistra i maschietti.
Io ero femminuccia. A fianco a me Rosaria e Fabiola.
Suona la campanella: «In fila per due, prendetevi per mano».
Io la mano volevo sempre tenerla a Fabiola. Aveva un modo di fare così gentile, ed era l’unica della classe in grado di disegnare: disegnare veramente, intendo.
Lo faceva benissimo. Era una sua capacità innata e ai miei occhi, a quell’età, questa cosa appariva divina.
Una volta la maestra ci assegnò un compito: «Fate un breve riassunto con disegno sul vostro cartone animato preferito».
Io scelsi La Sirenetta e il disegno me lo fece lei, in classe, di fretta, il mattino stesso della consegna. Sì, ho barato, ma quel disegno lo tenni conservato con cura per moltissimo tempo. Era una sirenetta bellissima, come lei, coi capelli lunghi e boccolosi e grandi occhi scuri.
Proprio lei, qualche tempo dopo, mi invitò a casa sua a giocare. Era un giorno speciale, ma io ancora non lo sapevo.
Entrai in classe con il mio zaino Seven giallo, grande quanto me.
Le altre bambine mi prendevano in giro per quello zaino, non solo perché non c’era disegnata neanche una principessa, ma anche perché non era rosa e non c’era né un brillantino né un cuoricino.
Insomma, il mio era proprio uno zaino da maschio!
«È da grandi, non da maschi», diceva mia madre che, giustamente, non aveva alcuna intenzione di comprarmi uno zaino nuovo ogni anno. Le principesse in voga cambiavano continuamente e, con loro, i gusti delle bambine. Il mio, invece, sarebbe andato bene fino alle scuole medie. Lo tenni fino ad allora!
Ma torniamo a quel giorno.
Entrai in classe con il mio zaino Seven giallo, lo incastrai nello schienale della seggiola e rimasi lì in piedi.
Testa bassa, silenzio e mani giunte; era il momento di recitare le preghiere. Sì, le preghiere. Era una scuola pubblica, non cattolica dunque, ma alla maestra Angela questo non importava. E così padre nostro, ave maria,
angelo di dio, eterno riposo, seduti, e via con la lezione di grammatica italiana.
Un rituale così consolidato che non faccio alcuna fatica a ricordare. È rimasto impresso nella mia memoria come quella volta che Fabiola mi invitò a giocare a casa sua.
Lei non poteva venire da me, suo padre non voleva. Era ancora troppo piccola e lui troppo “geloso”. A me invece era concesso. Mia madre prese accordi con la sua e il giorno dopo, all’uscita da scuola, andai via con lei. Ero felicissima, non mi sembrava vero. Finalmente potevamo stare da sole, lei e io, a ridere e a ballare. A scuola eravamo sempre in troppi.
La madre ci fece trovare il pranzo pronto e si sedette di fronte a noi; non per mangiare ma per iniziare il suo interrogatorio. Mi fece un mucchio di domande. Non capivo perché volesse sapere tutte quelle cose, ma io le risposi tutto ciò che voleva. Ero una brava bambina, educata e giudiziosa, e volevo lo pensasse anche lei.
Speravo in cuor mio che quel pomeriggio con Fabiola sarebbe stato il primo di una lunga serie, a patto che tutto fosse andato liscio.
Ma forse era troppo presto per scivolare nel mondo che stavo iniziando a immaginare: sua madre iniziò a guardarmi come fossi un’aliena, e la musichetta del Game Over di Super Mario iniziò a dipanarsi nella mia testolina.
Ero troppo emancipata per loro. Le femminucce non fanno certe cose.
Capii che dovevo godermi quel pomeriggio e che non ce ne sarebbero stati altri.
Non avrei più giocato con Fabiola dopo la scuola. Ero una cattiva compagnia.
Mi consolai pensando che avrei potuto continuare a vederla in classe.
Avrei potuto continuare a tenerle la mano in fila uscendo da scuola, se lei avesse voluto.
Avrei potuto continuare a mangiare il panino con lei durante la ricreazione.
Avrei potuto continuare a rimanere lì, nel banco di fianco al suo.
E lì rimasi.