- Racconto -

Il dibattito

Nel febbraio del 2007 ero al quarto anno di liceo classico e non avevo ancora 18 anni. Non c’erano un sacco di cose che di lì a poco sarebbero venute: guardavo la televisione via cavo e usavo internet un’ora al giorno (durante il pomeriggio e prevalentemente per studiare), telefonavo alle mie amiche con il telefono fisso (perché i costi del cellulare erano alti) e tutte le informazioni sul mondo che ricevevo provenivano da giornali, riviste, cd e notiziari televisivi.

Il mondo televisivo, infatti, era ancora saldamente ancorato ai canoni del secondo ‘900, alcuni temi e parole non si pronunciavano se non in maniera caricaturale: come i servizi del Tg1 per il Pride, oppure la laconica frase rivolta da Alessandra Mussolini alla prima deputata transgender della storia italiana, Vladimir Luxuria: «meglio un figlio fascista che frocio».
Il riconoscimento della comunità LGBT+ nella sfera pubblica era molto più velato di adesso e, nonostante la presenza di un forte e valido movimento di lotta, specie nei contesti più provinciali si percepiva un altrettanto forte sentimento di isolamento e solitudine relativo alla propria identità di genere e/o sessuale.
Per quanto mi riguarda, mi identificavo come una persona cisgender attratta dalle ragazze e questo era uno dei tanti segreti che riservavo alla mia intimità, guardandomi bene dal condividerlo anche con le mie amiche più intime per paura del loro giudizio e di ammettere la mia vergogna interiorizzata.
Privatamente avevo raccolto diverse informazioni rispetto al mondo LGBT+, che in quel momento mi sembrava un pianeta a sé, disperso nell’iperuranio di qualche altra galassia. Avevo letto alcuni libri di Pier Vittorio Tondelli, sapevo dell’esistenza della serie lesbica The L World (di cui vidi le puntate solo un paio di anni dopo). Per il resto fantasticavo, immaginavo.
Questo era il contesto che mi accompagnava nella crescita nel febbraio 2007 quando, a fronte delle notizie legate alla campagna elettorale dei partiti del centrosinistra, decidemmo come classe di organizzare un confronto fra professori di scuola in merito alla proposta di legge sui Dico, l’antecedente delle odierne unioni civili.
Nella mia classe non si erano verificati mai episodi di omofobia o transfobia semplicemente perché era una condizione invisibile; fra di noi, nessuno era a conoscenze di identità di genere o sessuali altre rispetto a quella eterosessuale, standard e prevista. Arrivai così al dibattito con una sana curiosità, potendo finalmente conoscere i pensieri di professor* e compagn* di classe in merito, e la consapevolezza che dietro il velo di questa curiosità forse si celavano altre persone che covavano gli stessi pensieri e interrogativi sulla propria identità.
Il dibattito era gestito dai rappresentanti di classe (un ragazzo e una ragazza) e vedeva alternarsi la posizione del nostro professore di Filosofia, favorevole ai Dico, con quella del professore di Religione, ovviamente contro i Dico. Quello che mi colpì di quella mattinata non furono tanto i confronti verbali dei due adulti nella stanza (a parte alcune uscite omofobe del professore di religione, un prete, che mi facevano salire il latte alle ginocchia), ma le posizioni de* compagn* di classe.
Assistevo come una spettatrice muta ai loro interventi, soppesavo le loro parole, cercavo di capire chi, tra loro, avrebbe avuto la sensibilità si capirmi, qualora – in privato – avessi trovato il coraggio di parlare di me. Alcuni interventi mi emozionarono, sentivo persone che nella quotidianità
giudicavo distanti dichiararsi alleati, mentre altri – da me ritenuti più vicini per la condivisione di gusti musicali, ad esempio, o di amicizia pregressa – fare affermazioni omofobe come percepire contro natura l’adozione di bambini per le coppie omosessuali.
Ricordo che la maggior parte si dichiarò a favore dei DiCo per le persone omosessuali, anche se con molti se e ma. Ricordo anche che io non dissi niente, in parte avevo paura che se avessi rotto la diga dietro a cui avevo trincerato i miei pensieri avrei dovuto fare i conti con me stessa e non ero – all’epoca – pronta; in parte quella mattinata non riuscì a persuadermi a dare fiducia e condivisione a* compagn* di classe. Rimasi zitta.
Pochi anni dopo iniziai un percorso di terapia personale che mi aiutò a fare i conti con i miei non detti e a iniziare una lunga trafila di coming out. Ero già all’università e avevo lasciato quel contesto provinciale, mi sentivo più al sicuro di quanto mi percepivo quella mattina in classe nel febbraio 2007.
Se ripenso oggi a quegli anni, belli a loro modo, non posso tornare a quel senso di amarezza provato ogni giorno per la consapevolezza che l’istituzione deputata alla nostra educazione civile lasciava alla casualità del privato quella sessuale e sentimentale, non riconoscendo e invisibilizzando le identità altre.
Nel 2008 il governo di centrosinistra cadde e il disegno di legge dei Dico venne affossato. Avremmo dovuto lottare altri 8 anni per vedere minimamente riconosciuta a livello legislativo l’unione di gay e lesbiche di fronte al nostro ordinamento giuridico.
Ancora oggi, invece, le politiche per un’educazione all’affettività e alla sessualità inclusiva delle persone LGBT+ vengono realizzate a macchia di leopardo, grazie alla libera iniziativa di contesti cittadini e scolastici più progressisti e lungimiranti. La lotta continua (cit.).