Sono quasi le 17 di una di quelle giornate pesanti, a cui mi stavo preparando psicologicamente da qualche giorno. Si tratta di una giornata particolarmente densa: sei (6), e lo scrivo sia in lettere sia in cifra, come si faceva una volta negli assegni, dico sei ore di lezione al mattino.
Non so se pesa di più a me che sono l’insegnante o a quei poveri disgraziati degli alunni.
E da lì, da scuola, il tempo di arrivare a casa di corsa ma non quello di mangiare, dato che i Consigli di classe cominceranno alle 14.30 e termineranno alle 19.
Credo che con un po’ di fortuna riuscirò a oscurare la telecamera e sgranocchiare qualcosa tra un intervento e l’altro, ascoltando quello che dicono i miei colleghi. Come, direte voi, la telecamera?
Si, per fortuna si tratta di Consigli di classe online su una piattaforma. Di quelle dove ogni tanto cambi lo sfondo e metti quello di una pizzeria o di un baracchino di kebab, perchè, anche se non lo dicono, molti dei colleghi hanno saltato il pranzo e mentre si parla degli obiettivi didattici personalizzati, della Dad e di altre sigle rispetto alle quali comincio a perdermi, lasciano indugiare il pensiero e si chiedono che cosa prepareranno per cena.
La collega di inglese ha una faccia stanchissima oggi, ogni tanto abbassa gli occhi, che fa? Si è addormentata per un attimo?
Mi fa tenerezza, so che è una persona molto seria e immagino quanto si sia data da fare oggi per arrivare alle 17.
Stiamo parlando di una quinta, una classe che non avevo lo scorso anno, ma che ho conosciuto un po’, sia perché sono stato il loro coordinatore per gli stage, sia perché qualcuno degli alunni, bocciato, l’ho avuto nel corso degli anni precedenti.
A un certo punto una docente nuova, di cui non conosco il nome e neppure la materia (sì, avete ragione, è strano, è vero, ma è il primo consiglio di classe e io questa collega non l’avevo mai vista), rompe il torpore pomeridiano con un racconto che per me è come un tuono che preannuncia il temporale: l’altro giorno, durante la lezione, I. si è alzato in piedi (allora non è così timidino come sembra) e ha detto, alla prof e alla classe, fuori contesto e tutto arrabbiato: «Lo sapete cos’ha fatto il vostro Papa? Ha autorizzato le unioni tra uomini.»
Così mi sono detto tra me e me: «Vedi che hai fatto bene a fare coming out con le classi?»
Lo penso sempre che è un gesto politico. Far associare l’immagine di un insegnante, che loro mediamente stimano, all’idea dell’omosessuale che, mediamente, gli fa… Beh, diciamo che quantomeno gli fa un po’ strano, li dovrebbe aiutare a distinguere fra quello che si è e quello che si fa.
Mi ricorda una campagna degli anni ‘80: in un manifesto, un pompiere salva un uomo da un incendio, tenendolo in braccio come avrebbe fatto Rhett Butler con Rossella in Via col Vento, e la didascalia sotto dice: «Cambia qualcosa se vi diciamo che è omosessuale?»
Ancora ho quel nanosecondo di tempo per immaginare una reazione indignata da parte della classe: ricordo bene che S. ha partecipato a laboratori per l’educazione alle differenze in seconda, e anche M. c’era. Gli mangeranno la faccia!
Sembravano già anni luce avanti a me sull’orientamento sessuale, sembrava che fossero scontate tutte quelle cose che gli venivano dette durante il laboratorio.
I miei alunni di prima parevano l’incarnazione di quelle nuove generazioni che, quando gli presentiamo questo aspetto, ci guardano come anziani che si sono persi in un bicchier d’acqua. Che problema c’è?
Il racconto della docente dai capelli rossi continua.
Ma, senti senti, la cosa prende un’altra piega ed è proprio S., proprio quella ragazzina piccolina che in prima camminava rasentando i muri, che gli dà ragione, dà ragione a I., cavolo, e dice che «questo Papa è comunista» e che quello che ha detto non va bene, autorizza le persone a fare quello che vogliono, a comportarsi in modo sbagliato.
Interviene anche M. (solo il giorno dopo capirò di chi si tratta) e sostiene che essere lesbica o gay sia contro non solo alla religione, ma anche alle leggi di natura, nonché essere una cosa schifosa e da pazzi.
Possibile che sia quel tipo che viene in mente a me? Mi sembra una persona così carina, è così attento agli altri, l’unico che mi aiuta spontaneamente a distribuire le fotocopie e a fare le copie degli archivi con la chiavetta quando facciamo contabilità sul computer. E io penso sempre che bella famiglia deve avere questo ragazzo che è stato educato così per bene.
Mi ricorda il mio fidanzato. Scusate se scrivo così, ma voglio che voi sappiate che noi gay non abbiamo un nome preciso per chiamare la persona che sta con noi, perché semplicemente non è stato previsto.
Io non lo chiamo “compagno” perchè fa troppo comunista, non lo chiamo neppure “partner” perchè fa troppo azienda commerciale, ma anche “fidanzato” non è che mi piaccia, perchè fa pensare a quelle coppiette che stanno per anni a tenersi la mano sul divano di casa del papà.
Mi sono perso: dicevo, mi ricorda il mio “fidanzato”, quando dice agli altri che sono matto per un preciso motivo: perchè qualche anno fa, assieme ad amici sono andato a piedi da Bologna a Firenze, la famosa Via Degli Dei. Ora ci vanno in tantissimi, è diventata quasi una moda. Avevo sentito parlare di quel percorso da piccolo in un film di Pupi Avati: questa impresa mi aveva sempre solleticato.
Il mio “fidanzato” sostiene che solo un pazzo può decidere di andare a piedi da Bologna a Firenze. Che ragione c’è? Perché tutta quella fatica? E poi ci sono i treni che in mezz’ora ti portano. Questo per dire che se una cosa non ci piace, non ci dà piacere, certo che non la capiamo e non la apprezziamo, però forse dovremmo poter comprendere e avere rispetto per chi la pensa diversamente e diversamente si comporta.
Tento di riprendere il filo del discorso, scusate, seguito a distrarmi.
La collega dai capelli rossi continua il suo racconto. Interviene la collega di Educazione fisica e dice che non si meraviglia, perchè in palestra sfottò come questi ne sente parecchi. Ah si? Davvero non credevo.
Poi la sua faccia sullo schermo del computer si rivolge a me e dice: «Prendono in giro anche te, collega…»
Anche questo non me lo aspettavo. Mamma mia! Meglio non entrare domani in quella quinta, mi metteranno al rogo? Povero me.
Un po’ mi indispettisco, lo ammetto, questo è un colpo basso. Non me lo aspettavo. E va beh, vedi che allora i progetti contro l’omofobia su cui tutti gli anni lavoriamo servono?
Ma cari ragazzi, penso io, ma che cosa significa che essere lesbica non è naturale? Non esistono né possono esistere comportamenti innaturali. Tutto ciò che esiste è per definizione naturale. I nostri concetti di naturale e innaturale non sono presi dalla biologia, ma da costruzioni culturali.
Torno alla realtà, al dibattere bruciante dei colleghi. Adesso è come se parlassero di me. Confortato dal completo e convinto appoggio dell’intero consiglio di classe, dichiaro la mia disponibilità a parlare ai ragazzi, a spiegare loro che esistono altri punti di vista e che, magari, quello che credono sull’omosessualità è una favola, una storia inventata da qualcuno, non la realtà.
Nel pomeriggio la prof dai capelli rossi che mi ricorda la Mannoia mi scrive una mail, di cui riporto una frase testualmente: «Ho pensato di sollevare la questione perché mi pare che la scuola non possa lasciar correre su casi come questo venendo meno – per pigrizia, timore o leggerezza – alla sua funzione primaria di educare alla cittadinanza.»
Evviva! Esistono ancora professoresse che non lasciano correre, ragazzi!
Quelle che si preoccupano e non sono pigre, non hanno timori e non prendono le cose con leggerezza. C’è ancora speranza per il pianeta Terra!