- Racconto -

Noce

Fin da piccolo ho sognato di fare l’insegnante. Non so perché, ma a me degli insegnanti è sempre piaciuto tutto e sia che mi stessero simpatici o che li odiassi, rimanevo incantato da un lavoro il cui cuore sta, appunto, nell’insegnare.

Nel trasmettere una disciplina, una materia, un concetto.
Eppure, il mondo degli insegnanti è anche il luogo dove mi sono sentito maggiormente tradito.
In quinta superiore ero un giovincello come tanti altri: voglia di studiare pochissima e 99% del tempo trascorso con amici tra sport e videogiochi; unica differenza rispetto ai miei compagni era il mio essere, in modo tragico e irrimediabile, sessualmente confuso. Fortunatamente me la sono sempre vissuta bene e pure i miei compagni eran tranquilloni o addirittura super curiosi di cosa si facesse in un letto tra due (o più) uomini. Non di rado durante gli intervalli, mentre la maggior parte di noi fingeva di fumare, ci raccontavamo le cose un po’ zozze successe nei giorni precedenti: chi con la ragazza, chi con degli sconosciuti.
Un giorno però, alla fine di una magica e memorabile lezione di inglese in laboratorio di ascolto, trascorsa tutta rigorosamente a dormire, mi trattenni nell’aula qualche minuto in più rispetto ai miei compagni per fare qualche domanda alla professoressa. Il mio intento era tanto puro quanto falso: porre domande sulla lezione per fingere di essere stato attento.
Genio.
Pirla.
Dopo aver posto le mie inutili domande, la professoressa mi ferma e mi inizia la frase che mai mi ero immaginato di sentire: «Senti… Ieri durante il consiglio di classe un altro professore ha detto che sei gay… Ma è vero?»
Panico. Panico panicopanicopanico.
Chiariamoci: io nella mia sessualità sono sempre stato molto aperto e tranquillo.
Ma quella di fronte a me…
Quella di fronte è a me è una super cattolica integralista, nelle fasce più intime della chiesa cattolica, di cui si fanno racconti tanto inquietanti quanto plausibili su alcune sue uscite durante i decenni di insegnamento. Quindi… panico.
Cala il silenzio, poi mi riprendo.
«Ma no, non è vero» le mento velocemente.
Sento un sospiro di sollievo nella sua voce.
«Ah… Per fortuna. Infame il professore, allora, che dice questa cattiverie! Bene bene. Comunque fai bene a tenere la barba… ti rende più virile».
Esco dalla stanza.
Le ore di scuola che seguono sono più o meno un vuoto nella mia memoria. Nulla aveva senso quella mattina. Quelle parole mi risuonavano nella testa di continuo.
Io, che mai avevo mentito sul chi o cosa sono.
Io, che ero sempre stato fedele a me stesso. Io, che con tanta e dolorosa fatica avevo imparato a piacermi. Io, che non mi ero reso conto di essere in una bolla e mi era appena esplosa in faccia.
Arrivato a casa il primo pensiero è stato di tagliarmi la barba. La odiavo. Maledetta barba, se l’avessi tenuta sarei stato parte del problema, avrei tenuto un qualche cosa che mi piaceva, ma che ora era percepita come una maschera e quindi, di conseguenza, anche io la percepivo come una maschera.
Mi sarei sforzato di essere il meno virile possibile. Mi sarei ripreso il mio terreno anche a costo di fingermi come non ero.
Poi mi calmo. Cosa fare? Ha senso iniziare una guerra a meno di due mesi dalla maturità, con una professoressa interna alla commissione?
Meglio temporeggiare. Il giorno dopo ne avrei parlato con altri professori, avrei capito cosa fare. Se fossi entrato in guerra con una fervente religiosa non avrei avuto modo di vincere in nessun utopistico finale; potevo però riprendermi i miei spazi con gli altri.
Così arriva il giorno successivo e io, forse per la prima volta nella mia carriera superiore, arrivo in anticipo a scuola. Prima ora: matematica. Prima della campanella, blocco il professore all’angolo. Lo sapevo che era lui il chiaccherone. Colui che aveva preso qualche cosa di mio e senza il mio consenso, senza neanche informarmi, l’aveva portato in un ring di lupi e l’aveva lasciato sbranare. Come si era permesso.
Come non aveva potuto pensare che dire una cosa del genere di uno studente di fronte ad una persona così maligna e religiosa non sarebbe stato un problema?
Non mi tengo, gli vomito tutto addosso. Concludo con «Non si può permettere di farlo».
Di nuovo, silenzio. Incredibilmente mi chiede scusa. Ero già pronto a pentirmi della sfacciataggine, e invece.
Seconda ora: italiano. Mia musa ispiratrice, amata professoressa dal pugno di ferro talmente potente da lasciar più caduti che negli inferi danteschi da lei narrati.
La blocco nel campo da calcio. Scoppio a piangere. Ci vedono tutti.
Le dico che non so cosa fare. Che odio il mio aspetto.
Che vorrei tornare indietro e dire la verità. Che la rabbia. Che il dolore.
Lei mi sorride e rassicura. Mi dice di tenere duro, che mancano solo due mesi alla fine. Le stronze saranno stronze, ma cammineremo su altre strade, parafrasando. Dopo la fine della scuola si poteva fare tutto, dirle tutto. Ma ora bisognava finire gli
studi e non rivederla mai più. Vivere sereni.
Non era una soluzione. Una toppa, forse. Ma aveva ragione: non potevo entrare in conflitto a così poco dalla maturità.
E allora niente, ingoia il rospo e sopporta un altro giorno.
Il giorno successivo, uscendo da scuola, tutte le amiche delle altre sessioni mi placcano e mi chiedono cosa sia successo.
Io non capisco, non ho raccontato a nessuno di questa cosa… Neppure a mia madre, per paura di causarle dolore (in quanto preso di mira e triste, non in quanto non etero).
Scopro così che alcune professoresse di italiano avevano appena tenuto, con molta foga e rabbia, lezioni su cosa fosse l’omofobia e su come riconoscerla e come non fosse tollerabile, non essendo più il ‘500.
Non ero mai stato abbandonato. Non ero mai davvero stato solo. La guerra che volevo non era sana, ma la battaglia valoriale era stata raccolta con estrema empatia e portata avanti da chi si trovava agli stessi livelli della bestia.
Non ero solo, e il professore si confermava il peggiore e il migliore lavoro del mondo.

Ps: E comunque, meno di un anno dopo, quello che pensavo esplicitamente della sua persona (ma in modo accettabile, per non fornire alcun fianco a critiche), alla professoressa bestia glielo dissi.